Mi sto appassionando alla problematica legata al riconoscimento del titolo di educatore e pedagogista. Mi sto confrontando, scontrando, discutendo attorno a questo tema.

Provo a sintettizzare grossolanamente le questioni, ben sapendo di non poter essere in questo modo esaustivo.

Cosa vale di più, il titolo o l’esperienza? La laurea o la competenza? In fondo è su questo quesito che si gioca la lotta del riconoscimento del nostro titolo e del nostro ruolo … della nostra professione.

Chi può fare l’educatore e/o il pedagogista? Chiunque senza alcuna formazione? E quale formazione? Sanitaria? Pedagogica? Uno psicologo può fare l’educatore? Un filoso può fare l’educatore? Che senso ha studiare per anni se poi chiunque può fare il lavoro al tuo posto?

Tutti i concorsi pubblici prevedono il titolo. Chi lavora per un ente privato che lavora con e per il pubblico deve garantire del personale “titolato” per essere accreditato. Le assunzioni avvengono per bandi e per titoli … non per competenze.

In tutto questo giochetto mi sembra che emerga il rischio pedagogico vero: l’essere titolati non garantisce l’essere qualificati. Il titolo non garantisce una professionalità e una competenza.

E’ vero, bisogna però andare a definire dei limiti, delle caratteristiche, delle qualità, … delle competenze. Bisogna incontrare le persone. Parlare con loro. Farsi raccontare. Conoscere.

La competenza è qualcosa che hai o che non hai. Il bello è che, se non ce l’hai, te la puoi fare. E poi la competenza non è acquisita una volta per tutte. La competenza si aggiorna, si modifica, si trasforma. La competenza può deviare dal suo percorso originario per andare alla scoperta di nuove terre …

Ragionare per titoli significa spostare il vero punto della questione. Al motto “la pedagogia al centro” rischiamo di sostenere “i pedagogisti al centro”.

Gli educatori e i pedagogisti hanno una grande responsabilità. Non nego la necessità e l’utilità dei percorsi formativi e “titolati”. Ma lo studio, l’attenzione, lo sguardo pedagogico possono formarsi anche nei canali non ufficiali.

La passione pedagogica vale più del titolo. Il desiderio di essere competenti anche dove non ci si sente tali, trasforma la persona in professionista. Non sono le risposte corrette, ma la fatica nel trovare delle risposte, delle strade, dei percorsi e il dramma degli errori che rendono la persona competente in educazione.

E allora, forse utopicamente, continuo a sperare e a lavorare sulla persona e non sui titoli che vengono messi in mostra. Continuo a sperare di incontrare professionisti che non sono fermi al loro titolo come sigillo a garanzia di chissà quale competenza.

E cerco, in prima persona, di continuare ad essere “un po’ meglio” di ieri … a provare a non chiudere e a limitare il mio sguardo ad un quadretto appeso al muro che non mi fa essere certo sicuro della mia competenza. Anzi.

Su molte cose so di essere incompetente … anche su questioni pedagogiche. Ma studio, mi informo, indago, incontro, mi confronto, cerco … non sono un professorone ma una persona che cerca di essere … professionista.

6 pensieri riguardo “Al centro la persona

  1. Bravo luca, bella riflessione.
    Aggiungo qualche riflessione, perché il tema è interessante e importante.

    Se si vuol difendere la pedagogia si deve imparare a rispettare chi la pedagogia la fa, bene e con passione. Prescindendo dalla provenienza della sua competenza.
    Chi la fa da pedagogista, da filosofo, da laureato in sociologia, in lettere, con il diploma di animatore sociale e di pluricultrice. Rimettere al centro la pedagogia vuol dire rimettere al centro chi la fa.

    Rispettare l’idea che fare educazione sia una delle cose più preziose che abbiamo.

    Rimettere al centro le educatrici dei nidi, che si sono formate con 35 anni di riflessioni e di lavoro sui bambini, domandandosi e ridomandandosi cosa fosse meglio per i nostri figli.
    Rispettare chi faceva educazione quando gli odierni pedagogisti nemmeno erano nati. Rispettare chi ha lavorato negli ospedali psichiatrici costruendo un ruolo, piano piano, con la passione di chi amava i “matti” e il proprio lavoro. Rispettare che avrebbe da spiegare delle cose ai docenti delle nostre università.
    Dobbiamo rispettare la fatica che hanno fatto i nuovi educatori a laurearsi e pretendere che non si fermino lì a lustrare la loro laurea.
    Rispettare le educatrici dei servizi per l’infanzia, che negli ultimi 30 anni si sono occupate di trasformare il loro ruolo da assistenziale ad educativo producendo materiale, idee e spunti utili per i nuovi pedagogisti.

    Rispettarle anche se non sono laureate.

    Rispettare chi la consulenza pedagogica la faceva prima che le università si “inventassero” il biennio da consulenti pedagogici.
    Rispettare l’idea che la pedagogia non è stata inventata nelle aule universitarie, rispettare Don Milani e gli uomini e le donne che da anni portano avanti porgetti educativi nei Quartieri Spagnoli o nelle favelas in Brasile senza titoli, onorificenze e senza portare a casa lo stipendio.

    Rispettare chi ha studiato, letto, approfondito e amato i libri di pedagogia, anche se non lo ha fatto a scuola.

    Rimettere al centro la pedagogia vuol dire difenderla dagli attacchi di chi non la sa fare a prescindere dalla provenienza della sua competenza, perché non c’è attacco peggiore di quello sferrato da chi forma senza passione e attenzione.

    Rimettere al centro al pedagogia vuol dire guardarla in modo aperto, senza chiudersi in arroccamenti ideologici e preconcettuali.
    Per rimetterla al centro, in qualche modo, bisognerebbe guardarla con amore

    Per difenderla converrebbe occuparsi di proteggere chi la fa bene, perché questo è l’unico modo di dar valore alle competenze, ai titoli, alle passioni e alle storie professionali contemporaneamente.

    Invece di difenderla forse converrebbe RISPETTARLA, perché forse rispettandola la si difende.

    Io preferisco rispettarla.

    Christian

  2. Esprimere opinioni e avere una visione per il futuro della nostra professione non è mancanza di rispetto! …. leggi sulle professioni hanno creato un accumularsi di problemi…. la legge 4/2013 permette a tutti di operare a vario titolo in ambiti socio educativi… rimango dell’idea che per l’acceso a determinati ruoli professionali sia necessario un filtro formativo anche più alto di quello attuale…. io rispetto sempre le persone e i loro percorsi di vita… ma la realtà attuale dice che i laureati non solo non sono rispettati ma neanche riconsociuti… nessuno si vanta di titoli che a tutti gli effetti non valgono niente… semmai rivendichiao che possano finalmente essere riconosciuti… non si vuole discriminare nessuno… ma l’istruzione universitaria va salvaguardata e premiata… il riscio è il contino impoverimento culturale della nostra società!
    L’ennesima sanatoria non può essere una soluzione!

  3. A parte la battuta, le domande che proponeva luca erano secondo me nobili, ovvero : come teniamo insieme diritti e qualità? Come teniamo insieme le preziose competenze generata da anni di lavoro con le nuove competenze in uscita dalle università ? come possiamo garantire che non si perdano anni e anni di riflessioni e importanti apprendimenti fatti nei luoghi che hanno inventato e suggerito alle università la costruzione di una percorso di laurea ad hoc ? Ridurre tutto ad una diatriba tra chi è laureato o meno è un peccato, daniele, perché sembra una lotta tra gente che difende il proprio orticello. Io ho molto rispetto di te e della fatica che avrai fatto nel tuo percorso formativo, qualunque sia. Tu riesci ad avere il medesimo rispetto per chi ha un percorso differente dal tuo? Una riflessione: Anche io non voglio l’impoverimento culturale della nostra società, ed è per questo che vorrei che differenti storie culturali e professionali sopravvivessero, proprio per non impoverire il nostro mondo. Come farlo ? Qualche soluzione ci sarebbe, ma bisognerebbe ragionarci senza partire dalla difesa del proprio percorso, anche se ( e su questo ti capisco) il proprio percorso è poco riconosciuto. La sanatoria (di cui hai parlato tu) potrebbe essere un modo per mettere un punto ed andare a capo, dicendo : da ora in poi, chi vuol fare questo lavoro deve partire da uno dei seguenti percorsi. In ambito psicoanalitico hanno fatto così, han preso chi faceva analisi (anche partendo da lauree in architettura o ingegneria) e stabilendo dei criteri condivisi hanno permesso alle persone che si erano formate in modo differente di continuare a fare il loro lavoro, stabilendo contemporaneamente che da quel momento , solo le lauree in medicina e psicologia permettevano l’accesso alla professione di psicoterapeuta. E’ per questo che io parlavo di rispettarla per difenderla. Perché penso che solo accettando che esiste una competenza extra universitaria ( sul campo, in ambiti privati, ecc) e riconoscendola che si potrà un giorno porre il vincolo del titolo senza ledere il diritto di lavorare di tantissimi educatori ed educatrici che lavorano da 30 anni per i nostri servizi socio educativi. Daniele, il problema del riconoscimento del titolo non lo hanno creato le persone che lavorano senza il titolo, ma le istituzioni. Il problema del doppio titolo ( sociale e sanitario) non è un problema degli educatori , ma delle due facoltà, che per ritagliarsi luoghi di potere specifico, si son creati il loro percorso ad hoc disinteressandosi dell’effetto che questa cosa avrebbe fatto ( lo avevamo capito tutti cosa sarebbe successo). Ho la sensazione, e chiudo, che tu abbia frainteso, sia l’intervento di luca che il mio (se ti riferivi al mio intervento quando citavi il rispetto) ma magari mi sbaglio, ovviamente. Ti saluto.

  4. …aggiungo inoltre un ultimo breve pensiero, che prova ad andare oltre la questione della sanatoria , che tra l’altro mi pare orientata a risolvere, solo, il problema odierno legato a chi lavoro da tempo, ma non affronta la questione a me cara della valorizzazione delle competenze.
    L’idea potrebbe essere (giusto per evitare ciò che succede nella scuola) di valutare differenti parametri :
    1) un punteggio per il titolo istituzionale
    2) un punteggio per altri eventuali percorsi formativi sia istituzionali ( psico – socio- filosofici) sia extra istituzionali ( scuole private, formazioni fatte per province , comuni, enti no profit ecc.
    3) un punteggio per il curriculum ( con dentro exp professionale, tirocinio e volontariato)
    4) un punteggio per come dimostri di saper parlare di educazione, progettare in educazione, innovare in educazione, stare nel mondo educativo.
    5) un punteggio (una sorta di idoneità) che stabilità psicologica, relazionale ed emotiva.

    Forse sarebbe difficile da costruire e forse è un sistema molto complesso ma io credo che se teniamo al lavoro educativo sia l’ora di provarci, soprattutto alla luce del fatto che che i sistemi semplici e basati solo sul riconoscimento del titolo istituzionale (come quello scolastico) hanno portano all’interno della scuola insieme ad alcuni ottimi insegnanti, anche una grande quantità di persone colte, ma senza nessuna competenza di insegnamento e di costruzione delle relazioni oltre che con grosse difficoltà di carattere personale.

    Non è anche un dovere della pedagogia e dell’educazione provare ad innovare,a trasformare, a cambiare, a sorprendere? Provarci non costa nulla se non la fatica di andare oltre le soluzioni semplici per cercare soluzioni complesse. Per cercare un sfida.

    Buone cose.

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